venerdì 29 maggio 2015

LO SPIRITO DELLA FORESTA

di Gianluca Bissolati

 Maggio 2001; Nuova Delhi; India. Per diversi giorni in tutta la città si ripeto gli attacchi inspiegabili di una creatura misteriosa chiamata “Uomo scimmia”. Due morti, oltre venti feriti. Gli agenti di polizia presenti in numero superiore a cinquantasettemila sono insufficienti ad arginare la minaccia. Nel clima di disperazione si mette una taglia di cinquantamila rupie sul misterioso essere. Gli attacchi, come cominciati, smettono senza apparente spiegazione. L'occidente parla di uomo travestito; i testimoni parlano di una creatura dotata di artigli d'acciaio e occhi color del fuoco che compie salti di circa centocinquanta metri. Il mistero persiste.






Eravamo in dieci in quel lontano 2001. Tutti desiderosi di fare soldi facili. Provenienti dall'America, nessuno di noi pensava ancora a quello che sarebbe successo di lì a poco, solo qualche giorno più tardi. In seguito avremmo avuto tutto il tempo necessario per pensarci.
Eravamo dieci bracconieri disposti a tutto pur di mettere le mani su di un leggendario cervo che si diceva si nascondesse nella riserva naturale “Tadaba Andhari Tiger Reserve”; un luogo praticamente incontaminato in cui vivono anche una considerevole quantità di tigri selvatiche. Situato proprio nel cuore indiano, decidemmo di partire senza sapere cosa avremmo trovato una volta giunti a destinazione. Sapevamo che il subcontinente era popolato da individui con stupide e radicate superstizioni riguardanti la natura e la religione, ma nulla di quello che ci era giunto all'orecchio poteva fermarci.
Io di indiano non sapevo assolutamente nulla, come anche la maggior parte dei miei compagni di spedizione. Solo uno di noi masticava più o meno la lingua, un certo Sal, che trascorreva le notti trastullandosi con donnine di facili costumi prevalentemente di origine indiana. A Sal non importava niente della cultura di quelle donne; solo si eccitava vedendo le loro movenze “quasi serpentesche” - come diceva con sguardo incantato quando ne parlava. Il fatto che avesse imparato un po' la loro lingua era spiegabile con la necessità di contrattare, e con il desiderio di sentire parlare le fanciulle nella loro lingua madre durante i suoi rapporti sessuali; alla fine dei quali chiedeva una traduzione di quello che gli avevano detto. Come si sa, da cosa nasce cosa, e quindi Sal era finito col studiare un po' per conto suo quella complicata lingua. A nulla erano valsi i nostri tentativi per dissuaderlo dall'intento: lui andava avanti testardo come un ariete. Fortunatamente, oserei dire, altrimenti non avremmo avuto la benché minima possibilità di districarci in quel mondo stralunato.
Partimmo da Lubbock, Texas, gli ultimi di aprile, ed arrivati in India ci stabilimmo in Nuova Delhi per alcuni giorni. La lontananza dalla riserva nostro obiettivo non costituiva un problema, anzi, era un vantaggio: dopo l'uccisione di quel fottuto cervo, nessuno avrebbe sospettato di noi stranieri, e anche se lo avesse fatto, non sarebbe stato in grado di trovarci. Il piano era semplice: restare per qualche giorno nella città, poi partire su tre macchine alla volta del Tadaba Andhari. Una volta giunti sul posto, avremmo studiato un po' il luogo e i possibili insediamenti umani, sperando di ricevere da essi qualche utile informazione sul nascondiglio del tanto famigerato cervo.
Gasati come non mai, partimmo da Nuova Delhi per il nostro viaggio di tre giorni nel subcontinente indiano. Avremmo potuto impiegare molto più tempo, volendo, tanto non c'era nulla a metterci pressione, ma il solo pensiero di sparare ad un animale che si diceva pesasse oltre quattrocento chili non ci faceva neppure dormire la notte.
Una volta giunto sul posto, il mio duro cuore di bracconiere iniziò a battere all'impazzata. La natura prosperava rigogliosa e vergine. Nessun essere umano, eccetto le piccole comunità indigene residenti nella riserva ed i guardiaparco, vi aveva mai messo piede.
La vegetazione che incontrammo una volta addentrati nella foresta pareva impenetrabile: la resistenza che ci oppose fu degna di una donna che non aveva mai conosciuto uomo prima di noi. Il buon vecchio stupido Sal era solito dire “La stiamo stuprando questa verginella”, e lo diceva quasi ansimando, quasi provando un piacere sessuale in quello che stava facendo. Il tempo interminabile che ci volle per giungere al centro della riserva non sembrava pesargli affatto, dal momento che il bastardo godeva nel distruggere la natura.
Come detto, c'erano dei guardiaparco: giravano in continuazione per gli alberi di quel posto seguendo le scie lasciate dal nostro sfacelo, ma non ci raggiunsero mai. In fondo eravamo bracconieri esperti, non ci saremmo lasciati acciuffare tanto facilmente.
Ricordo ancora che in una di quelle notti rischiammo di fare irruzione in un villaggio di povera gente. Il solito Sal voleva andare a fare razzie di donne e di ricchezze (quali poi?), e si precipitò tra la gente del villaggio prima ancora che noi potessimo fermarlo. Non lo seguimmo. Ci limitammo ad attendere il suo ritorno sconsolato qualche ora più tardi. Ci disse che di belle fanciulle e di preziosi non vi era l'ombra, ma che in compenso era riuscito ad ottenere qualche informazione che ci sarebbe tornata utile per il nostro obiettivo. La prima era quella di viaggiare tenendo una maschera sulla nuca, di modo che le tigri venissero ingannate e non ci attaccassero alle spalle; la seconda fu una lunga storia a cui momentaneamente non diedi troppo peso. Parlava del Maharaja della foresta e di dove si nascondeva con tutta probabilità. Uno di noi chiese spazientito perché ci stesse raccontando tutte quelle baggianate, al che Sal ci aveva spiegato che il Maharaja, che si chiamava proprio Foresta di nome (o meglio, il corrispettivo indiano per quel termine), altri non era che il cervo che andavamo cercando.
Rincuorati per l'informazione ripartimmo alla volta del centro esatto della riserva, dove si nascondeva il leggendario animale, falciando gli arbusti con i machete. Divorati dalle zanzare e sudati da fare schifo, arrivammo all'ingresso di una grotta immensa circondata da alberi alti almeno cinquanta metri. La vista inaspettata ci lasciò tutti a bocca aperta, e prima ancora che potessimo muovere un muscolo i branchi di gibboni nascosti sulle sommità verdi che ci stavano attorno iniziarono a strillare emettendo un acuto segnale di pericolo. Poco dopo, l'essere più meraviglioso che avessi mai visto in tutta la mia vita sbucò dall'antro caricando a testa bassa. La descrizione che avevamo sentito riguardo quell'animale non gli rendeva per niente giustizia: era un cervo dalle dimensioni mastodontiche, persino troppo esagerate per poterci credere. Aveva un'altezza di due metri al garrese, e gli sconfinati palchi si spalancavano per un'ampiezza di tre metri e mezzo. Il peso era sicuramente superiore ai quattrocento chilogrammi, ma non potrei parlarne con più precisione. Quello che più mi colpì era il cumulo di erba verdissima che portava in testa e che cresceva come un rampicante per i suoi palchi: era un qualcosa di unico e stupefacente, che difficilmente si sarebbe potuto credere opera della natura. Era un qualcosa che conferiva all'animale già di per sé maestoso un ulteriore tono di regalità.
La carica fu spericolata, e rallentò appena quando due di noi aprirono il fuoco nella sua direzione, non curanti dei possibili danni alla pelliccia. Del resto, nessuno ebbe il coraggio di rimproverarli, spaventati come eravamo. L'animale si fermò spontaneamente a poco meno di due metri da noi, senza aver ricevuto danni dalle pallottole, e ci osservò con degli occhi che sembravano decisamente umani. Posò lo sguardo su ognuno di noi, gelandoci l'anima per qualche secondo. Poi, capimmo il motivo della sua carica a testa bassa: dalla grotta spuntarono una femmina con dei cuccioli che corsero via veloci come il vento. Uno degli amici di Sal cercò di sollevare il fucile in direzione delle bestie in fuga, ma il Maharaja si scagliò su di esso con una potenza tale da rompergli tre costole, di cui sentimmo il raccapricciante rumore mentre si fracassavano. L'uomo cadde a terra, e questa volta tutti noi aprimmo il fuoco sul cervo. Non cadde subito. Grondante sangue per le oltre venti pallottole che si era preso, tornò con passo lento verso la grotta, fiutando l'aria a muso alto. Esterrefatti per quel comportamento insolito, non facemmo nulla se non constatare che il Maharaja Foresta si fosse sincerato della fuga di sua moglie Maharani e dei cuccioli. Dopodiché l'animale si voltò verso di noi ed emise uno dei bramiti più spaventosi che abbi mai sentito. Percepii quasi, senza esagerare, le vibrazioni della terra sotto i miei piedi. Dopo l'urlo carico di orgoglio e disperazione, l'essere si accasciò a terra esalando il suo ultimo respiro. Ma il terrore non era ancora finito, un altro grido si propagò nell'aria, e questa volta sembrava provenire da ogni angolo della boscaglia: era il grido di una quantità inaudita di scimmie che si produceva in un pianto rabbioso da gelare il sangue.
Senza festeggiare troppo per l'uccisione, raccogliemmo il nostro compagno ferito e la bestia, ci incamminammo sulla strada del ritorno. L'animale lo impacchettammo in una tela cerata, e lo strascinammo per la foresta cercando di sfuggire ai guardiaparco richiamati dal rumore della lotta. Sudando freddo ed evitando il più possibile pause inutili, arrivammo alle jeep in meno di un giorno e mezzo. L'immensità del posto ci protesse e, seppure avessimo incontrato una tigre durante il ritorno, essa si limitò a guardarci con due occhi carichi di lacrime e se ne andò. Non ne avevo mai vista una dal vivo, se non in gabbia, e quella vista così sommessa, tutt'altro che fiera come me la sarei aspettata, mi strinse il cuore, seppure senza il tempo di fermarmi nemmeno un secondo in più.
Giunti alle auto sistemammo il carico alla bell'e meglio e scappammo veloci come il fulmine. La strada da fare era tanta e non avevamo tempo da perdere. Stranamente, nessuno di noi fece battute di spirito durante il tragitto; ci limitammo a restare ognuno assorto nei propri pensieri che, potrei giurarci, erano gli stessi per ognuno di noi. Tutti, e dico con certezza tutti, stavamo ripensando alla storia senza senso che Sal ci aveva detto di ritorno dal villaggio.






Maharaja Foresta è lo spirito guardiano della riserva, sacro ad ogni animale e umano che vive tra i suoi alberi. Ha il compito di sorvegliare insieme alla moglie Maharani che il ciclo naturale del luogo si svolga senza particolari intoppi. I coniugi vivono nel punto più centrale della vastità verde: una grotta enorme circondata da una distesa infinita di alberi dalle altezze vertiginose. Maharaja e Maharani non vogliono vivere in quel posto, preferiscono vagare per la natura, ma i gli spiriti delle scimmie, i Raja di Foresta, li convincono a risiedere in pianta stabile nel luogo più sicuro di tutta la zona. I coniugi accettano, rincuorati dal fatto che i Raja avrebbero allontanato ogni visitatore nocivo alla loro casa. Non sempre i Raja colgono il pericolo con necessario preavviso, e ogni tanto qualche spirito malvagio riesce a giungere nei pressi della tana dei sovrani causando scompiglio. Proprio per scongiurare spiacevoli incidenti alla riserva, Maharaja e Maharani hanno l'unico compito di mettere al mondo una progenie sana che possa sostituire uno di loro al momento della morte. Nel caso in cui Maharaja o Maharani vengano a mancare e debbano essere sostituiti dai figli, il tutto si svolge come una festa, perché il ciclo naturale degli eventi continua in maniera regolare. Solo in una circostanza la festa si tramuta in tragedia: nel momento in cui uno dei coniugi viene a mancare in maniera violenta per mano di uno spirito malvagio. In tal caso, il coniuge restante convoca gli spiriti delle scimmie, e li manda all'inseguimento dei colpevoli del misfatto. Il sovrano solitario regna privo di un aiutante finché i Raja non tornano portando con sé gli spiriti degli assassini. A seguito di ciò la festa si fa ancora più grande del solito, ed il successore prende il comando della foresta decidendo come prima cosa la punizione adeguata per gli empi spiriti.






E quegli empi spiriti eravamo noi.
Logicamente nessuno credeva a quelle fandonie, anche perché altrimenti i Raja ci avrebbero raggiunto durante la nostra lenta fuga, e ciò non era successo. Eppure, ognuno di noi desiderava scappare da quel maledetto posto. Il fatto non poteva di certo sussistere, ma nella remotissima eventualità che i Raja di Foresta si fossero realmente messi sulle nostre tracce, non sarebbero di certo usciti dalla riserva per vendicarsi. O almeno lo speravamo.
Il viaggio di ritorno verso Nuova Delhi fu più breve di quando vi partimmo, ma ci sembrò non finire mai. Nonostante il carico fosse dissimulato in maniera più che adeguata, gli sguardi di chi ci vedeva passare ci facevano rabbrividire: sembrava sapessero tutti cosa nascondevamo, o per lo meno alle nostre menti abbagliate dallo stress così pareva. Dopo due giorni e mezzo, finalmente giungemmo a destinazione. Nello scantinato della casa da noi affittata nascondemmo in un freezer il cervo e facemmo medicare meglio che potemmo il nostro compagno ferito. La Tadaba Andhari ormai era lontana, e per qualche giorno ci abbandonammo alla più pazza gioia.
Fino a che una notte le cose iniziarono a precipitare. La sera del sei maggio, Sal scese a dare un'occhiata al cadavere dell'animale nascosto, ma trovò il freezer completamente vuoto. I sospetti serpeggiarono tra di noi: credevamo fermamente che uno della compagnia avesse venduto la carcassa per tenersi tutto il guadagno. Durante tutto il giorno successivo non facemmo altro che guardarci in cagnesco l'uno l'altro fino quasi ad arrivare a metterci le mani addosso.
Ma la notte seguente gli eventi ci fecero cambiare idea sull'accaduto. Le urla della gente della città ci giunsero quando il cielo era già buio.
A causa del calore insopportabile, per trovare un po' di ristoro almeno durante la notte, la gente si accalcava sui tetti della abitazioni al chiaro di luna. Da una casa distante circa trecento metri in linea d'aria dalla nostra, si levò un grido di uomini, donne e bambini scossi dal terrore più puro. Era un urlo di paura ancestrale, qualcosa che nella vita di tutti i giorni era impensabile sentire. Tutti e dieci, nonostante gli screzi, ci guardammo l'un l'altro e tendemmo l'orecchio in direzione di quel suono. Le urla crescevano e si facevano progressivamente più vicine a noi. Ma non erano solo quelle a farci accapponare la pelle, la cosa peggiore erano le ombre che sembravano sfrecciare da un tetto all'altro. Vagavano ognuna per conto suo, ma potemmo osservare che, lasciandosi dietro grida di paura e dolore, tutte sembravano convergere verso un unico punto. E quel punto eravamo noi.
Senza dire una parola, prima che una di quelle oscure figure potesse piombarci addosso, scendemmo dal tetto attraverso la botola e ci nascondemmo divisi in piccoli gruppi nelle diverse stanze dell'abitazione. Io mi trovai solo con Sal. Spaventati decidemmo di chiudere la porta a chiave e, non paghi, appoggiammo una sedia al di sotto della maniglia. Sapevamo che non c'era da stare tranquilli, anche noi travolti da quell'inspiegabile terrore ancestrale che attanagliava la città in quella notte tarda, e spostammo pure il letto e il comò davanti alla porta. Passarono pochi minuti e sentimmo un qualcosa di incredibilmente forte battere contro il legno massiccio. Nonostante il frastuono prodotto dalla creatura che cercava di catturarci, riuscimmo a sentire le urla di tre dei nostri compagni che venivano presi e percossi con forza nel corridoio antistante la camera dove eravamo chiusi. Le grida di dolore e spavento durarono poco più di due minuti, ma lo strazio che trasmettevano risuonò nelle nostre orecchie per tutte le ore successive. Ancora peggio, il tonfo sordo di qualcosa che batteva sul pavimento con una violenza impensabile fece tremare per un tempo infinitamente lungo ogni angolo della casa.
Intanto, l'essere sulle nostre tracce continuava a spingere sulla porta, fino a che sentimmo la serratura cedere. Io e Sal ci guardammo: solo allora vidi le lacrime che rigavano il volto del mio compagno ed il rosario che teneva in mano, estratto da chissà dove. Dalla porta ormai aperta ma comunque bloccata da tutto il resto, vedemmo le dita pelose di una mano enorme fare capolino. Le unghie lunghe e argentee avevano la lucentezza del ferro, ma sembravano molto più resistenti. Spaventati come bambini, io e Sal ci lanciammo in direzione dei mobili accatastati e facemmo peso con tutto il corpo per respingere la bestia al di là della nostra barricata. Potevo sentire il suo alito fetido, e di sfuggita vidi pure il suo volto scimmiesco con gli occhi lucenti come fiaccole; nulla a che fare con le scimmie comuni che avevamo visto nella riserva e nei dintorni della grotta: doveva essere un Raja di Foresta; la leggenda era dannatamente vera. Lottammo fino all'alba, quando la luce del sole portò con sé anche lo spirito che ci voleva. Semplicemente si fermò, ci guardò attraverso lo spiraglio e se ne andò senza battere ciglio.
Dopo qualche ora uscimmo, impauriti, ma speranzosi per il silenzio. Ci guardammo tutti intorno, noi sette superstiti, e cercammo tra la devastazione della casa i corpi dei nostri compagni. Non li trovammo, dovevano esserseli portati via. La decisione fu immediata: non potevamo restare lì, e tanto meno potevamo rimanere uniti. Divisi nello stesso modo in cui ci eravamo separati spontaneamente la notte prima ce ne andammo alla ricerca di un riparo migliore. Non so poi che successe agli altri mentre erano ancora in vita.
Io e Sal vagammo un po' per la città ancora impaurita e captammo qualche informazione. Si parlava di un solo Uomo scimmia, ma noi sapevamo che erano di più, molti di più. Semplicemente, muovendosi ognuno da solo, non si mostravano mai in branco. Ancora in lacrime, Sal mi raccontò che un anziano era morto cadendo da un tetto durante la fuga e molti altri, tra cui anche un bambino di tre anni, erano stati feriti. Pur sentendoci terribilmente colpevoli, decidemmo comunque di trovare nascondiglio in un luogo sperduto di Nuova Delhi. Eravamo codardi, e lo sapevamo, ma né io né lui eravamo pronti per ricevere il giudizio di Maharani. Noi occidentali avevamo perso il senso della sacralità della natura, non potevamo accettare le conseguenze tanto gravi del nostro gesto che in occidente ci avrebbe al massimo fruttato una multa e la galera per qualche anno.
Trovammo una casa dotata di scantinato. Era vuoto, ma ce lo facemmo comunque andare bene, dal momento che la sera era vicina. Là dentro il caldo era insopportabile, ma né io né Sal osammo aprire la piccola finestra che dava direttamente sul manto stradale. Attendemmo il buio, e quando giunse le grida della notte precedente tornarono a farsi sentire. Mi scoprii senza volerlo abbracciato ad un Sal singhiozzante come un moccioso.
Uno dei mostri non ci mise molto a trovarci, e questa notte non c'era nulla a dividerci da lui se non la porta vecchia a marcia. Capimmo subito che non avevamo speranza, ma come la notte antecedente cercammo di far peso sull'uscio per respingere l'animale. Resistemmo giusto dieci minuti, poi fummo sbalzati via senza pietà. Un essere alto poco più di un metro e sessanta, nero e peloso dalla testa ai piedi con due braccia muscolose ed una testa grande il doppio della nostra ci guardò con i suoi occhi infuocati, poi, con un movimento troppo rapido per essere visibile, si scagliò su Sal. Il poveraccio non fece neppure in tempo a gridare: venne preso per una gamba e lanciato come un giocattolo contro la parete della cantina. Il primo colpo lo tramortì, o lo uccise direttamente, non fui in grado di capirlo, ma il Raja continuò a percuotere il corpo esanime di Sal finché non vidi pezzi di materia celebrale cadere sul pavimento. Dopodiché lo spirito lasciò la presa e si gettò su di me, che nel frattempo ero rimasto immobile per il terrore. L'ultima cosa che sentii fu uno degli artigli dell'essere penetrarmi nella tempia mentre con la spinta di tutto il corpo mi fracassava il cranio contro il pavimento.
Poi il buio.
Mi risvegliai solo dopo qualche giorno. Attorno a me era tutto verde, e con un tuffo al cuore capii di essere di nuovo nella Tadaba Andhari Tiger Reserve. Vidi vicino a me Sal e gli atri tre uomini uccisi la sera prima di noi. Eravamo tutti terribilmente bianchi e ricoperti di ferite e sangue. Stranamente non provavamo dolore, e ancora più stranamente eravamo impossibilitati a muoverci dal posto. Non so per quanto restammo in quello stato, so solo che poco alla volta ci ritrovammo tutti e dieci nel medesimo punto. In quel momento sentimmo per la foresta levarsi grida di vittoria ed euforia: il Maharaja era stato vendicato, ed ora uno dei suoi cuccioli avrebbe preso il suo posto, decidendo come prima cosa il nostro destino.
Non assistemmo alla cerimonia di insediamento, so solo che quando i Raja ci trascinarono sul luogo in cui si teneva , quello che fino a poco tempo prima era un cerbiatto piccolo e normale si era tramutato in un essere enorme e maestoso esattamente come il padre, ed indossava pure la stessa corona di erba verdissima. Ci guardò, mentre fummo lasciati esattamente nel centro della radura in cui avevamo compiuto il nostro crimine, davanti alla grotta, e rimase immobile per qualche secondo. Poi, emettendo un bramito agghiacciante, scatenò un torrente di urla estasiate da tutti gli animali presenti. Tutti noi ci alzammo, senza nemmeno volerlo, come se i nostri corpi fossero diventati marionette sorrette da fili, e tra spasmi atroci, quasi fluttuando nell'aria, le nostre braccia si allungarono a dismisura, le unghie si spezzarono gocciolando sangue stranamente vivo per dei cadaveri, e vennero sostituite da artigli d'acciaio. Le nostre teste mentre si ingrossavano davano l'impressione di esplodere, e le nostre gengive sanguinavano copiosamente mentre i denti crescevano in maniera smisurata. Anche gli occhi persero sangue, mentre un bruciore li rendeva insopportabilmente dolenti. I peli iniziarono a crescere su ogni centimetro del nostro corpo, neri e ispidi, talmente tanti che insieme agli stravolgimenti scheletri e muscolari mandarono in frantumi i nostri vestiti. Finito tutto questo, un senso di sconforto mi persuase ogni cellula dell'organismo, ed un'irrequietudine si impadronì di me e dei miei compagni, costringendoci ad urlare proprio come tutti gli altri Raja.
Era la nostra fine.
Ecco quello che l'occidente aveva scordato. Ecco la pena che dovevamo scontare per l'eternità: eravamo costretti a servire la natura che noi occidentali ci eravamo illusi di poter utilizzare come nostra serva, e lo dovevamo fare passando prima per la morte. Avremmo dovuto cogliere i segnali che ci erano stati dati. Avremmo semplicemente dovuto capire ed essere meno stupidi.




 Storia di mia invenzione. L'unica cosa realmente riscontrabile sono gli attacchi da parte dell'Uomo scimmia a Nuova Delhi nel mese di maggio. Come detto, la spiegazione più plausibile è quella di un uomo travestito. Anche i morti, i feriti, il numero di agenti e la taglia sono reali. Sono informazioni trovate navigando per internet e sentite in diverse trasmissioni televisive. Pur mantenendo una riserva sui numeri riportati nei diversi articoli da me trovati, gli attacchi sono realmente avvenuti, a quanto pare. Anche il parco Tadaba Andhari Tiger Reserve è reale. Purtroppo la leggenda dei cervi è solo una mia invenzione.

giovedì 21 maggio 2015

EVOLUZIONE

di Gianluca Bissolati

Tornai
nel luogo natio.
Tutto era cambiato.
Nulla
agitava in me ricordi.
Deluso dalla nuova vista,
vago
privo di una casa.

domenica 17 maggio 2015

IL SUO SORRISO

di Gianluca Bissolati

Non vi è sole
che possa brillare
com'il tuo sorriso
dopo un giorno di pioggia.


È arte,
e son io artista
che sulle tue labbra
disegno il mio mondo.

mercoledì 13 maggio 2015

TRIBUNALE

di Gianluca Bissolati

Segni sul corpo,
ricordi.
Croci indelebili
di colpe
mai scontate.
Mio giudice,
pietà!
Me stesso,
abbi pietà
di te.

sabato 9 maggio 2015

MAMMA

di Gianluca Bissolati

Fragile
eppure tanto forte.
Piccola
eppure tanto grande.
Lei non dorme,
riposa gli occhi.
Lei non sbaglia,
ti mette alla prova.
Cresce
e ti cresce,
e anche spenta
in te sempre brillerà.
Donna
e Santa,
severa
e dolce.
Autrice primaria
dell'opera più grande:
il figlio;
che ora,
mentre riposi gli occhi
con volto stanco,
ti può forse conoscere
e capire,
e vedendo lo sforzo,
puntando a non ridurlo vano,
ti ringrazia
per tutta la fatica.

giovedì 7 maggio 2015

NUOVO MONDO

di Gianluca Bissolati

C'era un ragazzo
nei bagni della scuola
solo
in lacrime.
Se scoperto
non celava il pianto.
Quanto cambiamento!
Che rivoluzione
in un giovane
e le sue guance umide!
Solo
contro chi vuol che l'uomo lotti
senza prima aver sentito.
Più di una bomba
è qual pianto solitario.

lunedì 4 maggio 2015

EQUILIBRIO

di Gianluca Bissolati

Troppe cose nella testa,
nel Tutto niente emerge.
Alieno di me stesso
non scorgo più il passato
e incerto mi è il futuro.
Vago
cercando nel marasma
di ripescar ciò ch'è scordato
ed aver del nuovo ciò che serve.