di Gianluca Bissolati
Maggio
2001; Nuova Delhi; India. Per diversi giorni in tutta la città si
ripeto gli attacchi inspiegabili di una creatura misteriosa chiamata
“Uomo scimmia”. Due morti, oltre venti feriti. Gli agenti di
polizia presenti in numero superiore a cinquantasettemila sono
insufficienti ad arginare la minaccia. Nel clima di disperazione si
mette una taglia di cinquantamila rupie sul misterioso essere. Gli
attacchi, come cominciati, smettono senza apparente spiegazione.
L'occidente parla di uomo travestito; i testimoni parlano di una
creatura dotata di artigli d'acciaio e occhi color del fuoco che
compie salti di circa centocinquanta metri. Il mistero persiste.
Eravamo
in dieci in quel lontano 2001. Tutti desiderosi di fare soldi facili.
Provenienti dall'America, nessuno di noi pensava ancora a quello che
sarebbe successo di lì a poco, solo qualche giorno più tardi. In
seguito avremmo avuto tutto il tempo necessario per pensarci.
Eravamo
dieci bracconieri disposti a tutto pur di mettere le mani su di un
leggendario cervo che si diceva si nascondesse nella riserva naturale
“Tadaba Andhari Tiger Reserve”; un luogo praticamente
incontaminato in cui vivono anche una considerevole quantità di
tigri selvatiche. Situato proprio nel cuore indiano, decidemmo di
partire senza sapere cosa avremmo trovato una volta giunti a
destinazione. Sapevamo che il subcontinente era popolato da individui
con stupide e radicate superstizioni riguardanti la natura e la
religione, ma nulla di quello che ci era giunto all'orecchio poteva
fermarci.
Io
di indiano non sapevo assolutamente nulla, come anche la maggior
parte dei miei compagni di spedizione. Solo uno di noi masticava più
o meno la lingua, un certo Sal, che trascorreva le notti
trastullandosi con donnine di facili costumi prevalentemente di
origine indiana. A Sal non importava niente della cultura di quelle
donne; solo si eccitava vedendo le loro movenze “quasi
serpentesche” - come diceva con sguardo incantato quando ne
parlava. Il fatto che avesse imparato un po' la loro lingua era
spiegabile con la necessità di contrattare, e con il desiderio di
sentire parlare le fanciulle nella loro lingua madre durante i suoi
rapporti sessuali; alla fine dei quali chiedeva una traduzione di
quello che gli avevano detto. Come si sa, da cosa nasce cosa, e
quindi Sal era finito col studiare un po' per conto suo quella
complicata lingua. A nulla erano valsi i nostri tentativi per
dissuaderlo dall'intento: lui andava avanti testardo come un ariete.
Fortunatamente, oserei dire, altrimenti non avremmo avuto la benché
minima possibilità di districarci in quel mondo stralunato.
Partimmo
da Lubbock, Texas, gli ultimi di aprile, ed arrivati in India ci
stabilimmo in Nuova Delhi per alcuni giorni. La lontananza dalla
riserva nostro obiettivo non costituiva un problema, anzi, era un
vantaggio: dopo l'uccisione di quel fottuto cervo, nessuno avrebbe
sospettato di noi stranieri, e anche se lo avesse fatto, non sarebbe
stato in grado di trovarci. Il piano era semplice: restare per
qualche giorno nella città, poi partire su tre macchine alla volta
del Tadaba Andhari. Una volta giunti sul posto, avremmo
studiato un po' il luogo e i possibili insediamenti umani, sperando
di ricevere da essi qualche utile informazione sul nascondiglio del
tanto famigerato cervo.
Gasati
come non mai, partimmo da Nuova Delhi per il nostro viaggio di tre
giorni nel subcontinente indiano. Avremmo potuto impiegare molto più
tempo, volendo, tanto non c'era nulla a metterci pressione, ma il
solo pensiero di sparare ad un animale che si diceva pesasse oltre
quattrocento chili non ci faceva neppure dormire la notte.
Una
volta giunto sul posto, il mio duro cuore di bracconiere iniziò a
battere all'impazzata. La natura prosperava rigogliosa e vergine.
Nessun essere umano, eccetto le piccole comunità indigene residenti
nella riserva ed i guardiaparco, vi aveva mai messo piede.
La
vegetazione che incontrammo una volta addentrati nella foresta pareva
impenetrabile: la resistenza che ci oppose fu degna di una donna che
non aveva mai conosciuto uomo prima di noi. Il buon vecchio stupido
Sal era solito dire “La stiamo stuprando questa verginella”,
e lo diceva quasi ansimando, quasi provando un piacere sessuale in
quello che stava facendo. Il tempo interminabile che ci volle per
giungere al centro della riserva non sembrava pesargli affatto, dal
momento che il bastardo godeva nel distruggere la natura.
Come
detto, c'erano dei guardiaparco: giravano in continuazione per gli
alberi di quel posto seguendo le scie lasciate dal nostro sfacelo, ma
non ci raggiunsero mai. In fondo eravamo bracconieri esperti, non ci
saremmo lasciati acciuffare tanto facilmente.
Ricordo
ancora che in una di quelle notti rischiammo di fare irruzione in un
villaggio di povera gente. Il solito Sal voleva andare a fare razzie
di donne e di ricchezze (quali poi?), e si precipitò tra la gente
del villaggio prima ancora che noi potessimo fermarlo. Non lo
seguimmo. Ci limitammo ad attendere il suo ritorno sconsolato qualche
ora più tardi. Ci disse che di belle fanciulle e di preziosi non vi
era l'ombra, ma che in compenso era riuscito ad ottenere qualche
informazione che ci sarebbe tornata utile per il nostro obiettivo. La
prima era quella di viaggiare tenendo una maschera sulla nuca, di
modo che le tigri venissero ingannate e non ci attaccassero alle
spalle; la seconda fu una lunga storia a cui momentaneamente non
diedi troppo peso. Parlava del Maharaja della
foresta e di dove si nascondeva con tutta probabilità. Uno di noi
chiese spazientito perché ci stesse raccontando tutte quelle
baggianate, al che Sal ci aveva spiegato che il Maharaja,
che si chiamava proprio Foresta
di nome (o meglio, il corrispettivo indiano per quel termine), altri
non era che il cervo che andavamo cercando.
Rincuorati
per l'informazione ripartimmo alla volta del centro esatto della
riserva, dove si nascondeva il leggendario animale, falciando gli
arbusti con i machete. Divorati dalle zanzare e sudati da fare
schifo, arrivammo all'ingresso di una grotta immensa circondata da
alberi alti almeno cinquanta metri. La vista inaspettata ci lasciò
tutti a bocca aperta, e prima ancora che potessimo muovere un muscolo
i branchi di gibboni nascosti sulle sommità verdi che ci stavano
attorno iniziarono a strillare emettendo un acuto segnale di
pericolo. Poco dopo, l'essere più meraviglioso che avessi mai visto
in tutta la mia vita sbucò dall'antro caricando a testa bassa. La
descrizione che avevamo sentito riguardo quell'animale non gli
rendeva per niente giustizia: era un cervo dalle dimensioni
mastodontiche, persino troppo esagerate per poterci credere. Aveva
un'altezza di due metri al garrese, e gli sconfinati palchi si
spalancavano per un'ampiezza di tre metri e mezzo. Il peso era
sicuramente superiore ai quattrocento chilogrammi, ma non potrei
parlarne con più precisione. Quello che più mi colpì era il cumulo
di erba verdissima che portava in testa e che cresceva come un
rampicante per i suoi palchi: era un qualcosa di unico e
stupefacente, che difficilmente si sarebbe potuto credere opera della
natura. Era un qualcosa che conferiva all'animale già di per sé
maestoso un ulteriore tono di regalità.
La
carica fu spericolata, e rallentò appena quando due di noi aprirono
il fuoco nella sua direzione, non curanti dei possibili danni alla
pelliccia. Del resto, nessuno ebbe il coraggio di rimproverarli,
spaventati come eravamo. L'animale si fermò spontaneamente a poco
meno di due metri da noi, senza aver ricevuto danni dalle pallottole,
e ci osservò con degli occhi che sembravano decisamente umani. Posò
lo sguardo su ognuno di noi, gelandoci l'anima per qualche secondo.
Poi, capimmo il motivo della sua carica a testa bassa: dalla grotta
spuntarono una femmina con dei cuccioli che corsero via veloci come
il vento. Uno degli amici di Sal cercò di sollevare il fucile in
direzione delle bestie in fuga, ma il Maharaja si
scagliò su di esso con una potenza tale da rompergli tre costole, di
cui sentimmo il raccapricciante rumore mentre si fracassavano. L'uomo
cadde a terra, e questa volta tutti noi aprimmo il fuoco sul cervo.
Non cadde subito. Grondante sangue per le oltre venti pallottole che
si era preso, tornò con passo lento verso la grotta, fiutando l'aria
a muso alto. Esterrefatti per quel comportamento insolito, non
facemmo nulla se non constatare che il Maharaja Foresta
si fosse sincerato della fuga di sua moglie Maharani
e dei cuccioli. Dopodiché l'animale si voltò verso di noi ed emise
uno dei bramiti più spaventosi che abbi mai sentito. Percepii quasi,
senza esagerare, le vibrazioni della terra sotto i miei piedi. Dopo
l'urlo carico di orgoglio e disperazione, l'essere si accasciò a
terra esalando il suo ultimo respiro. Ma il terrore non era ancora
finito, un altro grido si propagò nell'aria, e questa volta sembrava
provenire da ogni angolo della boscaglia: era il grido di una
quantità inaudita di scimmie che si produceva in un pianto rabbioso
da gelare il sangue.
Senza
festeggiare troppo per l'uccisione, raccogliemmo il nostro compagno
ferito e la bestia, ci incamminammo sulla strada del ritorno.
L'animale lo impacchettammo in una tela cerata, e lo strascinammo per
la foresta cercando di sfuggire ai guardiaparco richiamati dal rumore
della lotta. Sudando freddo ed evitando il più possibile pause
inutili, arrivammo alle jeep in meno di un giorno e mezzo.
L'immensità del posto ci protesse e, seppure avessimo incontrato una
tigre durante il ritorno, essa si limitò a guardarci con due occhi
carichi di lacrime e se ne andò. Non ne avevo mai vista una dal
vivo, se non in gabbia, e quella vista così sommessa, tutt'altro che
fiera come me la sarei aspettata, mi strinse il cuore, seppure senza
il tempo di fermarmi nemmeno un secondo in più.
Giunti
alle auto sistemammo il carico alla bell'e meglio e scappammo veloci
come il fulmine. La strada da fare era tanta e non avevamo tempo da
perdere. Stranamente, nessuno di noi fece battute di spirito durante
il tragitto; ci limitammo a restare ognuno assorto nei propri
pensieri che, potrei giurarci, erano gli stessi per ognuno di noi.
Tutti, e dico con certezza tutti,
stavamo ripensando alla storia senza senso che Sal ci aveva detto di
ritorno dal villaggio.
Maharaja
Foresta è lo spirito guardiano
della riserva, sacro ad ogni animale e umano che vive tra i suoi
alberi. Ha il compito di sorvegliare insieme alla moglie Maharani
che il ciclo naturale del luogo si svolga senza particolari intoppi.
I coniugi vivono nel punto più centrale della vastità verde: una
grotta enorme circondata da una distesa infinita di alberi dalle
altezze vertiginose. Maharaja e
Maharani non vogliono
vivere in quel posto, preferiscono vagare per la natura, ma i gli
spiriti delle scimmie, i Raja di Foresta,
li convincono a risiedere in pianta stabile nel luogo più sicuro di
tutta la zona. I coniugi accettano, rincuorati dal fatto che i Raja
avrebbero allontanato ogni visitatore nocivo alla loro casa. Non
sempre i Raja colgono
il pericolo con necessario preavviso, e ogni tanto qualche spirito
malvagio riesce a giungere nei pressi della tana dei sovrani causando
scompiglio. Proprio per scongiurare spiacevoli incidenti alla
riserva, Maharaja e
Maharani hanno l'unico
compito di mettere al mondo una progenie sana che possa sostituire
uno di loro al momento della morte. Nel caso in cui Maharaja
o Maharani
vengano a mancare e debbano essere sostituiti dai figli, il tutto si
svolge come una festa, perché il ciclo naturale degli eventi
continua in maniera regolare. Solo in una circostanza la festa si
tramuta in tragedia: nel momento in cui uno dei coniugi viene a
mancare in maniera violenta per mano di uno spirito malvagio. In tal
caso, il coniuge restante convoca gli spiriti delle scimmie, e li
manda all'inseguimento dei colpevoli del misfatto. Il sovrano
solitario regna privo di un aiutante finché i Raja non
tornano portando con sé gli spiriti degli assassini. A seguito di
ciò la festa si fa ancora più grande del solito, ed il successore
prende il comando della foresta decidendo come prima cosa la
punizione adeguata per gli empi spiriti.
E
quegli empi spiriti eravamo noi.
Logicamente
nessuno credeva a quelle fandonie, anche perché altrimenti i Raja
ci avrebbero raggiunto durante la nostra lenta fuga, e ciò non era
successo. Eppure, ognuno di noi desiderava scappare da quel maledetto
posto. Il fatto non poteva di certo sussistere, ma nella remotissima
eventualità che i Raja di
Foresta si fossero realmente messi sulle nostre tracce, non sarebbero
di certo usciti dalla riserva per vendicarsi. O almeno lo speravamo.
Il
viaggio di ritorno verso Nuova Delhi fu più breve di quando vi
partimmo, ma ci sembrò non finire mai. Nonostante il carico fosse
dissimulato in maniera più che adeguata, gli sguardi di chi ci
vedeva passare ci facevano rabbrividire: sembrava sapessero tutti
cosa nascondevamo, o per lo meno alle nostre menti abbagliate dallo
stress così pareva. Dopo due giorni e mezzo, finalmente giungemmo a
destinazione. Nello scantinato della casa da noi affittata
nascondemmo in un freezer il cervo e facemmo medicare meglio che
potemmo il nostro compagno ferito. La Tadaba Andhari
ormai era lontana, e per qualche giorno ci abbandonammo alla più
pazza gioia.
Fino
a che una notte le cose iniziarono a precipitare. La sera del sei
maggio, Sal scese a dare un'occhiata al cadavere dell'animale
nascosto, ma trovò il freezer completamente vuoto. I sospetti
serpeggiarono tra di noi: credevamo fermamente che uno della
compagnia avesse venduto la carcassa per tenersi tutto il guadagno.
Durante tutto il giorno successivo non facemmo altro che guardarci in
cagnesco l'uno l'altro fino quasi ad arrivare a metterci le mani
addosso.
Ma
la notte seguente gli eventi ci fecero cambiare idea sull'accaduto.
Le urla della gente della città ci giunsero quando il cielo era già
buio.
A
causa del calore insopportabile, per trovare un po' di ristoro almeno
durante la notte, la gente si accalcava sui tetti della abitazioni al
chiaro di luna. Da una casa distante circa trecento metri in linea
d'aria dalla nostra, si levò un grido di uomini, donne e bambini
scossi dal terrore più puro. Era un urlo di paura ancestrale,
qualcosa che nella vita di tutti i giorni era impensabile sentire.
Tutti e dieci, nonostante gli screzi, ci guardammo l'un l'altro e
tendemmo l'orecchio in direzione di quel suono. Le urla crescevano e
si facevano progressivamente più vicine a noi. Ma non erano solo
quelle a farci accapponare la pelle, la cosa peggiore erano le ombre
che sembravano sfrecciare da un tetto all'altro. Vagavano ognuna per
conto suo, ma potemmo osservare che, lasciandosi dietro grida di
paura e dolore, tutte sembravano convergere verso un unico punto. E
quel punto eravamo noi.
Senza
dire una parola, prima che una di quelle oscure figure potesse
piombarci addosso, scendemmo dal tetto attraverso la botola e ci
nascondemmo divisi in piccoli gruppi nelle diverse stanze
dell'abitazione. Io mi trovai solo con Sal. Spaventati decidemmo di
chiudere la porta a chiave e, non paghi, appoggiammo una sedia al di
sotto della maniglia. Sapevamo che non c'era da stare tranquilli,
anche noi travolti da quell'inspiegabile terrore ancestrale che
attanagliava la città in quella notte tarda, e spostammo pure il
letto e il comò davanti alla porta. Passarono pochi minuti e
sentimmo un qualcosa di incredibilmente forte battere contro il legno
massiccio. Nonostante il frastuono prodotto dalla creatura che
cercava di catturarci, riuscimmo a sentire le urla di tre dei nostri
compagni che venivano presi e percossi con forza nel corridoio
antistante la camera dove eravamo chiusi. Le grida di dolore e
spavento durarono poco più di due minuti, ma lo strazio che
trasmettevano risuonò nelle nostre orecchie per tutte le ore
successive. Ancora peggio, il tonfo sordo di qualcosa che batteva sul
pavimento con una violenza impensabile fece tremare per un tempo
infinitamente lungo ogni angolo della casa.
Intanto,
l'essere sulle nostre tracce continuava a spingere sulla porta, fino
a che sentimmo la serratura cedere. Io e Sal ci guardammo: solo
allora vidi le lacrime che rigavano il volto del mio compagno ed il
rosario che teneva in mano, estratto da chissà dove. Dalla porta
ormai aperta ma comunque bloccata da tutto il resto, vedemmo le dita
pelose di una mano enorme fare capolino. Le unghie lunghe e argentee
avevano la lucentezza del ferro, ma sembravano molto più resistenti.
Spaventati come bambini, io e Sal ci lanciammo in direzione dei
mobili accatastati e facemmo peso con tutto il corpo per respingere
la bestia al di là della nostra barricata. Potevo sentire il suo
alito fetido, e di sfuggita vidi pure il suo volto scimmiesco con gli
occhi lucenti come fiaccole; nulla a che fare con le scimmie comuni
che avevamo visto nella riserva e nei dintorni della grotta: doveva
essere un Raja di Foresta; la leggenda era dannatamente vera.
Lottammo fino all'alba, quando la luce del sole portò con sé anche
lo spirito che ci voleva. Semplicemente si fermò, ci guardò
attraverso lo spiraglio e se ne andò senza battere ciglio.
Dopo
qualche ora uscimmo, impauriti, ma speranzosi per il silenzio. Ci
guardammo tutti intorno, noi sette superstiti, e cercammo tra la
devastazione della casa i corpi dei nostri compagni. Non li trovammo,
dovevano esserseli portati via. La decisione fu immediata: non
potevamo restare lì, e tanto meno potevamo rimanere uniti. Divisi
nello stesso modo in cui ci eravamo separati spontaneamente la notte
prima ce ne andammo alla ricerca di un riparo migliore. Non so poi
che successe agli altri mentre erano ancora in vita.
Io
e Sal vagammo un po' per la città ancora impaurita e captammo
qualche informazione. Si parlava di un solo Uomo scimmia, ma noi
sapevamo che erano di più, molti di più. Semplicemente, muovendosi
ognuno da solo, non si mostravano mai in branco. Ancora in lacrime,
Sal mi raccontò che un anziano era morto cadendo da un tetto durante
la fuga e molti altri, tra cui anche un bambino di tre anni, erano
stati feriti. Pur sentendoci terribilmente colpevoli, decidemmo
comunque di trovare nascondiglio in un luogo sperduto di Nuova Delhi.
Eravamo codardi, e lo sapevamo, ma né io né lui eravamo pronti per
ricevere il giudizio di Maharani. Noi occidentali avevamo
perso il senso della sacralità della natura, non potevamo accettare
le conseguenze tanto gravi del nostro gesto che in occidente ci
avrebbe al massimo fruttato una multa e la galera per qualche anno.
Trovammo
una casa dotata di scantinato. Era vuoto, ma ce lo facemmo comunque
andare bene, dal momento che la sera era vicina. Là dentro il caldo
era insopportabile, ma né io né Sal osammo aprire la piccola
finestra che dava direttamente sul manto stradale. Attendemmo il
buio, e quando giunse le grida della notte precedente tornarono a
farsi sentire. Mi scoprii senza volerlo abbracciato ad un Sal
singhiozzante come un moccioso.
Uno
dei mostri non ci mise molto a trovarci, e questa notte non c'era
nulla a dividerci da lui se non la porta vecchia a marcia. Capimmo
subito che non avevamo speranza, ma come la notte antecedente
cercammo di far peso sull'uscio per respingere l'animale. Resistemmo
giusto dieci minuti, poi fummo sbalzati via senza pietà. Un essere
alto poco più di un metro e sessanta, nero e peloso dalla testa ai
piedi con due braccia muscolose ed una testa grande il doppio della
nostra ci guardò con i suoi occhi infuocati, poi, con un movimento
troppo rapido per essere visibile, si scagliò su Sal. Il poveraccio
non fece neppure in tempo a gridare: venne preso per una gamba e
lanciato come un giocattolo contro la parete della cantina. Il primo
colpo lo tramortì, o lo uccise direttamente, non fui in grado di
capirlo, ma il Raja continuò a percuotere il corpo esanime di
Sal finché non vidi pezzi di materia celebrale cadere sul pavimento.
Dopodiché lo spirito lasciò la presa e si gettò su di me, che nel
frattempo ero rimasto immobile per il terrore. L'ultima cosa che
sentii fu uno degli artigli dell'essere penetrarmi nella tempia
mentre con la spinta di tutto il corpo mi fracassava il cranio contro
il pavimento.
Poi
il buio.
Mi
risvegliai solo dopo qualche giorno. Attorno a me era tutto verde, e
con un tuffo al cuore capii di essere di nuovo nella Tadaba
Andhari Tiger Reserve. Vidi vicino a me Sal e gli atri tre uomini
uccisi la sera prima di noi. Eravamo tutti terribilmente bianchi e
ricoperti di ferite e sangue. Stranamente non provavamo dolore, e
ancora più stranamente eravamo impossibilitati a muoverci dal posto.
Non so per quanto restammo in quello stato, so solo che poco alla
volta ci ritrovammo tutti e dieci nel medesimo punto. In quel momento
sentimmo per la foresta levarsi grida di vittoria ed euforia: il
Maharaja era stato vendicato, ed ora uno dei suoi cuccioli
avrebbe preso il suo posto, decidendo come prima cosa il nostro
destino.
Non
assistemmo alla cerimonia di insediamento, so solo che quando i Raja
ci trascinarono sul luogo in cui si teneva , quello che fino a poco
tempo prima era un cerbiatto piccolo e normale si era tramutato in un
essere enorme e maestoso esattamente come il padre, ed indossava pure
la stessa corona di erba verdissima. Ci guardò, mentre fummo
lasciati esattamente nel centro della radura in cui avevamo compiuto
il nostro crimine, davanti alla grotta, e rimase immobile per qualche
secondo. Poi, emettendo un bramito agghiacciante, scatenò un
torrente di urla estasiate da tutti gli animali presenti. Tutti noi
ci alzammo, senza nemmeno volerlo, come se i nostri corpi fossero
diventati marionette sorrette da fili, e tra spasmi atroci, quasi
fluttuando nell'aria, le nostre braccia si allungarono a dismisura,
le unghie si spezzarono gocciolando sangue stranamente vivo per dei
cadaveri, e vennero sostituite da artigli d'acciaio. Le nostre teste
mentre si ingrossavano davano l'impressione di esplodere, e le nostre
gengive sanguinavano copiosamente mentre i denti crescevano in
maniera smisurata. Anche gli occhi persero sangue, mentre un bruciore
li rendeva insopportabilmente dolenti. I peli iniziarono a crescere
su ogni centimetro del nostro corpo, neri e ispidi, talmente tanti
che insieme agli stravolgimenti scheletri e muscolari mandarono in
frantumi i nostri vestiti. Finito tutto questo, un senso di sconforto
mi persuase ogni cellula dell'organismo, ed un'irrequietudine si
impadronì di me e dei miei compagni, costringendoci ad urlare
proprio come tutti gli altri Raja.
Era
la nostra fine.
Ecco
quello che l'occidente aveva scordato. Ecco la pena che dovevamo
scontare per l'eternità: eravamo costretti a servire la natura che
noi occidentali ci eravamo illusi di poter utilizzare come nostra
serva, e lo dovevamo fare passando prima per la morte. Avremmo dovuto
cogliere i segnali che ci erano stati dati. Avremmo semplicemente
dovuto capire ed essere meno stupidi.
Storia
di mia invenzione. L'unica cosa realmente riscontrabile sono gli
attacchi da parte dell'Uomo scimmia a Nuova Delhi nel mese di maggio.
Come detto, la spiegazione più plausibile è quella di un uomo
travestito. Anche i morti, i feriti, il numero di agenti e la taglia
sono reali. Sono informazioni trovate navigando per internet e
sentite in diverse trasmissioni televisive. Pur mantenendo una
riserva sui numeri riportati nei diversi articoli da me trovati, gli
attacchi sono realmente avvenuti, a quanto pare. Anche il parco
Tadaba Andhari Tiger
Reserve è reale.
Purtroppo la leggenda dei cervi è solo una mia invenzione.
venerdì 29 maggio 2015
giovedì 21 maggio 2015
EVOLUZIONE
di Gianluca Bissolati
Tornai
nel luogo natio.
Tutto era cambiato.
Nulla
agitava in me ricordi.
Deluso dalla nuova vista,
vago
privo di una casa.
Tornai
nel luogo natio.
Tutto era cambiato.
Nulla
agitava in me ricordi.
Deluso dalla nuova vista,
vago
privo di una casa.
domenica 17 maggio 2015
IL SUO SORRISO
di Gianluca Bissolati
Non vi è sole
che possa brillare
com'il tuo sorriso
dopo un giorno di pioggia.
È arte,
e son io artista
che sulle tue labbra
disegno il mio mondo.
Non vi è sole
che possa brillare
com'il tuo sorriso
dopo un giorno di pioggia.
È arte,
e son io artista
che sulle tue labbra
disegno il mio mondo.
mercoledì 13 maggio 2015
TRIBUNALE
di Gianluca Bissolati
Segni sul corpo,
ricordi.
Croci indelebili
di colpe
mai scontate.
Mio giudice,
pietà!
Me stesso,
abbi pietà
di te.
Segni sul corpo,
ricordi.
Croci indelebili
di colpe
mai scontate.
Mio giudice,
pietà!
Me stesso,
abbi pietà
di te.
sabato 9 maggio 2015
MAMMA
di Gianluca Bissolati
Fragile
eppure tanto forte.
Piccola
eppure tanto grande.
Lei non dorme,
riposa gli occhi.
Lei non sbaglia,
ti mette alla prova.
Cresce
e ti cresce,
e anche spenta
in te sempre brillerà.
Donna
e Santa,
severa
e dolce.
Autrice primaria
dell'opera più grande:
il figlio;
che ora,
mentre riposi gli occhi
con volto stanco,
ti può forse conoscere
e capire,
e vedendo lo sforzo,
puntando a non ridurlo vano,
ti ringrazia
per tutta la fatica.
Fragile
eppure tanto forte.
Piccola
eppure tanto grande.
Lei non dorme,
riposa gli occhi.
Lei non sbaglia,
ti mette alla prova.
Cresce
e ti cresce,
e anche spenta
in te sempre brillerà.
Donna
e Santa,
severa
e dolce.
Autrice primaria
dell'opera più grande:
il figlio;
che ora,
mentre riposi gli occhi
con volto stanco,
ti può forse conoscere
e capire,
e vedendo lo sforzo,
puntando a non ridurlo vano,
ti ringrazia
per tutta la fatica.
giovedì 7 maggio 2015
NUOVO MONDO
di Gianluca Bissolati
C'era un ragazzo
nei bagni della scuola
solo
in lacrime.
Se scoperto
non celava il pianto.
Quanto cambiamento!
Che rivoluzione
in un giovane
e le sue guance umide!
Solo
contro chi vuol che l'uomo lotti
senza prima aver sentito.
Più di una bomba
è qual pianto solitario.
C'era un ragazzo
nei bagni della scuola
solo
in lacrime.
Se scoperto
non celava il pianto.
Quanto cambiamento!
Che rivoluzione
in un giovane
e le sue guance umide!
Solo
contro chi vuol che l'uomo lotti
senza prima aver sentito.
Più di una bomba
è qual pianto solitario.
lunedì 4 maggio 2015
EQUILIBRIO
di Gianluca Bissolati
Troppe cose nella testa,
nel Tutto niente emerge.
Alieno di me stesso
non scorgo più il passato
e incerto mi è il futuro.
Vago
cercando nel marasma
di ripescar ciò ch'è scordato
ed aver del nuovo ciò che serve.
Troppe cose nella testa,
nel Tutto niente emerge.
Alieno di me stesso
non scorgo più il passato
e incerto mi è il futuro.
Vago
cercando nel marasma
di ripescar ciò ch'è scordato
ed aver del nuovo ciò che serve.
Iscriviti a:
Post (Atom)