martedì 28 aprile 2015

VERGINITÀ MENTALE

di Gianluca Bissolati

Muta colore
il sogno
dell'uomo senza desideri.
Coloranti artificiali,
che non gli appartengono,
inquinano la tela
della sua mente vergine.

sabato 25 aprile 2015

La Banda Del Cortile: APPENDICE (storia breve a seguito del romanzo)

di Gianluca Bissolati

Disteso sul letto, in una notte dannata in cui il sonno tarda ad arrivare, mi interrogo sul senso della mia esistenza.
Di solito non sono così profondo, ma questa maledetta notte un attacco improvviso di depressione mi coglie e non smette di affondare i suoi artigli nel mio cervello inerte. Non che le altri notti il mio cervello mi sia amico, ma questa volta ha deciso di dichiararmi ufficialmente guerra, accartocciandosi su se stesso e facendomi capire che è pronto ad abbandonarmi quando vuole.
Qual è il mio scopo? Con che criterio posso giudicare la mia vita utile per qualcosa e qualcuno? Perché è questo che sto facendo, mi ergo a giudice della mia esistenza, prima che un ipotetico Dio possa farlo e farmi una qualche rivelazione a cui da solo non sono ancora giunto.
Non capita spesso che io salga in cattedra e inizi a dare giudizi su me stesso. A dire il vero, non capita quasi mai di sentirmi dare giudizi in generale; talmente consapevole della mia pochezza, non oso attribuire ad altri le mancanze di cui sono colpevole io stesso. E questo è il mio primo giudizio: sono una persona da poco.
Cosa mi rende speciale in confronto alla massa? Nulla. Ho due figli, una moglie che mi sta accanto in ogni necessità ed un bel lavoro in un ristorante/pizzeria, ma questo non fa di me un individuo degno di esistere. Ci vorrebbe ben altro.
Cosa ci vorrebbe? Non lo so nemmeno io. A volte credo che basterebbe solo condurre le mie giornate in modo diverso dal solito per far sì che la mia esistenza possa assumere un qualche valore ai miei stessi occhi, occhi della mente, si intende. Sono consapevole che tutti questi pensieri negativi domani mattina mi avranno abbandonato, sono consapevole di ogni cosa che mi riguarda direttamente in questo preciso istante ma, nel frattempo, mentre lo sconforto più nero mi assale, non posso fare a meno di naufragare in questo oceano di disperazione che mi affoga senza un particolare motivo. Devo essere sempre stato in questa immensità di sconforto ma, per qualche motivo, la piccola scialuppa su cui navigavo a vista deve avere subito un danno. Magari anche solo un piccolo buco nello scafo, ma il gelo che vi entra e mi bagna i piedi fa sì che tutto il corpo sia scosso da tremori.
Non oso nemmeno immaginare come possa essere trovarsi immerso del tutto in quel dannato e ipotetico oceano. Anzi, credo di esserci pure stato per un po' di tempo, quando ero ancora giovane. Credo che oggi non resisterei. Credo che non resisterebbe nessuno nelle mie condizioni, a dire il vero.
Da cosa è stata causata questa falla alla mia scialuppa? Da mia moglie probabilmente. Lei, la regina eternamente bambina e sovrana dei miei sentimenti, oggi è tiranna del mio cuore e, senza muovere un dito, tiene in pugno il mio cervello e i miei sentimenti.
È evidente: valgo davvero poco singolarmente. Senza di lei al mio fianco non sono assolutamente nulla. Ero talmente assuefatto alla sua presenza che, prima di questo momento, non ricordavo quanto grande potesse essere la sua mancanza. Caspita! Non se ne è andata per sempre! Tornerà, probabilmente già domani. Eppure, oggi mi sento un vuoto nello stomaco che solo il nutrimento del suo sorriso può colmare.
Come sono romantico. Come sono vigliaccamente romantico. Solo quando è assente riesco a dare un senso ai sentimenti a cui solitamente non sono nemmeno in grado di dare forma. Perché non le dico mai queste parole? Perché non le parlo chiaramente? Forse perché tutto questo lo sa già; o forse perché significherebbe aprire uno squarcio nella mia illusoria coperta di certezze. Mi rimetterei completamente a lei se le rivelassi questi pensieri. Ma forse sono già totalmente nelle sue mani, anzi, certamente lo sono, quindi perché non mostrarle una volta per tutte la mia debolezza ed offrirle su un piatto d'argento il pugnale con cui potrà ferirmi a suo piacimento?
Ho deciso, approfittando della sua assenza e del sonno di quei due demoni che chiamo figli e che mi impediscono di godere pienamente dell'amore che nutro nei confronti di mia moglie, le scriverò una lettera che molto probabilmente domattina non avrò il coraggio di farle leggere.
Mi alzo deciso, molto più di quanto io non sia realmente, e senza fare rumore mi dirigo in cucina dove trovo dei fogli privi di qualsivoglia valore e inizio a trasferire al bianco delle pagine il valore dei miei sentimenti.

Principessa - non uso il tuo nome perché in un contesto del genere mi sembrerebbe irrispettoso - aspetto il tuo ritorno e nel frattempo cerco con la forza della mente di non sentire la tua mancanza, immaginandoti qui, a fianco a me, a tenermi compagnia anche in questa notte gelida di agosto.
Ho un'infinità di cose da dirti e proprio trovandomi di fronte all'infinito non so nemmeno da che punto cominciare. Potrei dirti che ti amo, ma questo sarebbe troppo banale e, anche nella banalità della parola in sé, la mia incertezza nella scrittura mi impedirebbe di farti capire fino in fondo l'immensità di ciò che provo per te.
Inizierò invece dicendoti che ti odio. Sì, ti odio. Ti odio perché mi hai tolto la libertà, che un tempo possedevo, di pensarmi come un essere singolo, mentre ora non penso che a me stesso come a “Me” e “Te”, in cui i pronomi singolari perdono importanza ed acquista valore solamente il “Noi”. Ti odio ancora di più perché con la tua immensa dolcezza hai fatto sì che io mi dimenticassi del tutto, oppure iniziassi a disprezzare - non mi è ancora chiaro - il modo in cui ci si sente ad essere solo.
Ti ringrazio, perché senza di te non avrei mai potuto capire la grandezza del mio animo quando ti è vicino, e ti odio perché quando non ci sei mi rendo conto sempre di più di quanto esso sia insignificante.
Sai che non sono bravo a parlare e ti ringrazio perché hai sempre accettato questa mia mancanza. Allo stesso tempo ti odio perché hai fatto sì che io non fossi più in grado di sorvolare su questa mia lacuna.
Rileggendo queste righe provo il forte impulso di strappare il foglio e mandare tutto al diavolo, di tornare nel letto a cercare un sonno che sembra essere fuggito, ma non lo faccio. Un po' perché so che quando sarò nuovamente sotto le lenzuola, mi ritroverò nella stessa condizione in cui mi trovavo prima: ad osservare il vuoto nel posto in cui ero abituato a vederti dopo essermi coricato o appena alzato. Un po' non lo faccio perché su questo foglio trovo il testimone della mia esistenza: trovo te.
Come è possibile trovarti in un luogo in cui sei palesemente assente? Come è possibile che tu sia su questo fottuto foglio insignificante? Ma la domanda vera dovrebbe essere come è possibile che io trovi testimonianza di te in ogni singola cosa che osservo.
Principessa, mi hai reso tuo schiavo dandomi l'illusione di essere il tuo cavaliere.
Sai, a volte mi fa strano chiamarti ancora Principessa. Lo faccio ormai da talmente tanti anni che non ho nemmeno più la voglia di tenerne il conto. Eppure non riesco a smettere. Lo facevo quando entrambi eravamo ragazzi e tu eri la “mia piccola” e lo faccio anche oggi che mi rendo conto di essere io quello piccolo, comparato a te.
Il punto è che per me tu rimarrai sempre piccola, pur sapendo benissimo che non lo sei. Nei tuoi comportamenti maturi della donna che sei diventata, rivedo ancora la ragazzina di cui mi sono innamorato. A volte mi chiedo come sia possibile. Come fai a resistere al mondo mantenendoti così pura, proprio come eri un tempo?
La mia vita mi ha cambiato. I problemi che sono sopraggiunti e che abbiamo affrontato sempre insieme mi hanno reso l'uomo meschino che sono ora. Che poi, so di non essere così male come mi descrivo, perché altrimenti un angelo come te non starebbe insieme ad un povero diavolo come me, ma ormai credo che tu l'abbia capito: questa notte è particolare e non posso fare altro che assecondare le sue stranezze abbandonandomi al flusso di pensieri scollegati che mi travolge mentre ti penso.
Ma tu non sei cambiata. Tu sei sempre rimasta la ragazza che mi ha fatto innamorare e che continua a tenermi con il fiato sospeso ogni volta che la vedo.
Me ne sono reso conto diversi anni fa, nel momento di tua massima fragilità in cui, ancora una volta, mi hai stupito con la tua forza. Non so se questi sono i termini giusti, ma non riesco a trovare parole migliori per descrivere il momento del parto, quando hai dato alla luce il nostro primo figlio.
Eri lì, distesa sul lettino dell'ospedale, sudata e con il viso contratto in una smorfia di dolore eppure, anche così trasfigurata, continuavo a vedere i lineamenti dell'Angelo che ho sempre conosciuto. Sei stata davvero eccezionale. Non credo di avertelo mai detto, ma stasera voglio farlo.
Mi sono ricordato di quando eri una ragazzina - non che ora tu sia vecchia, sia chiaro, ma anche tu sei molto maturata da allora  - ed ho visto in quel ricordo tutta la forza che un tempo non ero riuscito a scorgere con tanta chiarezza. Ti ho rivista nel giorno del nostro primo incontro: io a fare l'accoglienza nel ristorante in cui venivi spesso e tu, immensamente stupenda, in piedi davanti al bancone ad aspettare l'arrivo di tuo padre. Ricordo di avere avuto un mancamento, tanto pensavo che tu fossi solo un'illusione. E ora, ripensando ancora al momento in cui mi hai reso padre, ho di nuovo lo stesso mancamento perché rivedo la forza che avevi tu e che io non avrei mai potuto avere.
Se ripenso che prima, quando le cose erano appena cominciate, ho rischiato addirittura di perderti per sempre a causa del mio stupido orgoglio, provo l'impulso di prendermi a schiaffi. Anzi, ti rivelo un segreto: una volta l'ho pure fatto, ma non dirlo a nessuno Principessa.
Sarà il caso che ora lasci la penna e ritorni ad osservare il soffitto della nostra camera da letto. Sai, ero partito col proposito di scriverti due righe e sono già arrivato a tre pagine. Spero di non averti seccato.
Ora, Angelo mio, tornerò silenziosamente da dove sono venuto e terrò in mano la lettera che contiene tutto quello che ti ho sempre voluto dire e che finalmente ho trovato il coraggio di scrivere. Lo so che non è la stessa cosa, ma sono sicuro che perdonerai anche questa mia mancanza.
Mai parole furono usate in modo più improprio durante la stesura di una dichiarazione d'amore. Mai la parola odio fu utilizzata per descrivere l'immensità dell'amore che un uomo può provare nei confronti di una donna, ma so che mi conosci, molto più di quanto mi conosca io stesso, e so che sorvolerai anche su questa indecenza.
Buongiorno Principessa, perché anche se è notte, tu leggerai queste righe alla luce del sole e spero che ti faranno passare una giornata felice.
Ti amo. È la prima volta che te lo dico chiaramente, ma l'ho sempre pensato. Lo sai.

Mi sento stranamente esausto, dopo lo sforzo di scrivere. Mai avrei pensato che ne sarei stato in grado, eppure ci sono riuscito stupendomi ancora una volta.
Sapevo che mi avrebbe fatto bene scrivere e dare un ordine ai miei pensieri. Mi sento già meglio.
Facendo le scale di corsa rischio di svegliare quegli angioletti dei miei figli. Ma tutto sommato non mi importa: tengo in mano il mio cuore in forma cartacea e so che facendolo mi sto liberando di un peso enorme.
Perché non l'ho fatto prima? Perché non sono riuscito mai a provare la liberazione di scrivere quelle due paroline che sono “Ti Amo”?
Non lo so, e non mi interessa. Non ha più senso ormai. Arrivando al letto appoggio la lettera sul cuscino di mia moglie e mi sdraio sulla mia parte.
Ti vedo già, mentre leggi quello che ti ho scritto e magari mi dai dello stupido. Ti vedo già mentre sorridi e forse piangi, mentre mi ami e forse mi vorresti prendere a schiaffi.
Sei il vento che tiene viva la mia fiamma, sei il calore che scalda le mie giornate. Non te l'ho scritto nella lettera ma, chi lo sa?, magari in un futuro prossimo, quando sarò ancora attanagliato dai dubbi che mi hanno tenuto sveglio questa notte potrei scriverti anche di quello.
Ora dormo, o almeno ci provo, ché domani si lavora. Non sono più il giovane che ero un tempo. Non vedo l'ora di rivederti e spero che sia lo stesso anche per te.
Prendo in mano il cellulare e sperando che anche tu mi stia pensando ti mando un messaggio come ai vecchi tempi.

BUONA NOTTE PRINCIPESSA.
MI MANCHI.

martedì 21 aprile 2015

LA BANDA DEL CORTILE: Breve introduzione

di Gianluca Bissolati

Che finisca ciò che inizia non è nulla di speciale
E non importa che cos’era o quanto per te vale



 Ora mi incazzo. Lo sento. Se parte ancora l’allarme, mi incazzo.
 Il caldo e la monotonia del lavoro in fabbrica stanno riducendo il mio cervello ad un omogeneizzato, e in più questa dannatissima macchina si ferma ogni due per tre facendo squillare l’allarme.
 Mezzo addormentato dopo sette ore e mezza a fissare delle padelle vuote che mi passano davanti ad un ritmo talmente lento ed insistente da ipnotizzare anche il più stoico degli insonni, la sirena alle mie spalle mi interrompe per l’ennesima volta proprio mentre sto iniziando a perdere la distinzione tra realtà e mondo dei sogni.
 Ok, sono incazzato.
 “Ma non si può fare niente per sta cavolo di macchina!?”
 Urlare non serve più di tanto, anzi, non fa altro che aumentare il mal di testa che mi martella alle tempie, ma almeno ha l’effetto di richiamare il capo turno. Non è un tipo che parla molto, quindi mi guarda limitandosi ad alzare le spalle e a spegnere l’allarme, poi se ne va senza fare nulla di concreto.
 Beh, sei utile. Potevo farlo pure io.
 L’incazzatura lascia il posto allo sconforto. Ho gli occhi pesanti e nel caldo estivo la fronte è imperlata di sudore; il lavoro fa cagare e l’essere umano più vicino a me in questa dannata fabbrica di dolciumi si trova a circa cinquanta metri.
 Per esempio oggi stiamo preparando una quantità inaudita di brioche da distribuire in tutta Italia. Il mio non è un compito impegnativo, non lo è per niente ad essere sinceri, consiste semplicemente nel controllare che la macchina sollevi tutte le brioche dalla padella su cui sono state appoggiate dopo essere uscite dal forno ed aver ricevuto il ripieno. Con una spatolina, devo staccare i resti di pasta rimasti sul vassoio.
 Uno dei lavori più alienanti che si possa immaginare.
 Il rumore delle macchine e la ripetitività dei gesti rendono questo posto un inferno. Come in un girone dantesco, la mia condanna ad osservare padelle vuote continua ogni giorno per otto ore.
 Meno male che mancano solo venti minuti alla fine del turno; anche se l’allarme alle mie spalle ha ripreso a strillare e io rischio di impazzire.
 Senza dire una parola e senza nemmeno chiamare il capoturno, mi volto e corro a spegnere La tromba dell’Inferno poi, senza perdere neanche un brandello di brioche, torno al mio posto isolato.
 Sono consapevole che al mondo esistono lavori di gran lunga peggiori, in fondo non è stancante e nemmeno impegnativo, ma cazzo! Si potesse almeno tenere un paio di cuffie per sentire un po’ di musica, sarebbe tutta un’altra cosa!
 Le caviglie iniziano a dolermi per la prolungata immobilità. Non vedo l’ora di sdraiarmi sul divano di casa e fare la muffa per un pomeriggio intero e, proprio mentre penso al morbido giaciglio su cui mi abbandonerò tra non molto, le palpebre cominciano nuovamente a farsi pesanti e quasi casco di naso sul macchinario che mi sta davanti.
 Tutto sommato non è poi così male essere soli. Si evitano molte figure di merda.
 Pur odiando questo mestiere, non posso far altro che essere sotto sotto felice di trovarmi qui.
 Almeno per oggi. Poi domani si vedrà.
 Non è un lavoro appagante, per nulla, ma i soldi in qualche modo bisogna pur guadagnarseli, quindi per il poco che durerà ancora questa situazione, me la faccio andare bene.
 Ancora dieci minuti.
 In famiglia non abbiamo seri problemi economici ma nemmeno navighiamo nell’oro. Viviamo tutti contando esclusivamente sul lavoro di mio padre.
 Quindi una volta finite le scuole ho voluto subito cercare un lavoro e fare la mia parte.
 Novecento euro al mese, non una cifra eccezionale ma pur sempre meglio di nulla senza contare che, d’accordo con i miei genitori, posso trattenere duecentocinquanta euro per le mie necessità.
Sette minuti.
 E devo dire che mi bastano. In fondo qualche serata al bar, le sigarette (molte) e le ricariche del cellulare sono le mie uniche spese.
Poter contribuire, anche se con poco, alla vita famigliare, mi fa davvero piacere. Mi fa sentire in un certo senso importante. È il mio modo di ringraziare i miei genitori.
 Tre.
 Che comunque potrebbero andare avanti anche senza il mio stipendio. Come infatti accadrà.
 Due.
 Sì, perché le cose ultimamente in questa fabbrica vanno peggio del solito. Dipendenti non pagati, persone licenziate e solo contratti a tempo determinato per i nuovi arrivi.
 Uno.
 Quindi non mi stupisce più di tanto di come le cose siano andate per me e molti altri nuovi assunti. E non ci posso fare nulla, quindi...
 Zero.
 ‘Fanculo, sono disoccupato.

sabato 18 aprile 2015

ACQUA SU BICI SCOPERTE

di Gianluca Bissolati

Piove.
Come se non bastasse.
Nemmeno il freddo sole
per farci compagnia.
Eppure
ben poco cambierebbe.
Siamo freddi,
oggi solo un po' di più.

mercoledì 8 aprile 2015

PICCOLI PASSI PER CRESCERE

di Gianluca Bissolati




Riconoscimento per il mio ebook "La banda del cortile", pubblicato presso Officine Editoriali (link di seguito), dal concorso letterario della città di Cattolica. Per pochi voti non ero tra i finalisti! Peccato, sarà per la prossima volta! Intanto ci accontentiamo di essere stati notati!
http://www.officineditoriali.com/index.php?page=shop.product_details&flypage=flypage_images.tpl&product_id=132&category_id=1&option=com_virtuemart&Itemid=3

giovedì 2 aprile 2015

DAVIDE E GOLIA

di Gianluca Bissolati

 Avete presente il mito di Davide e Golia? Lo conoscono tutti, andiamo! Naturalmente siete anche convinti che la storia narrata nella Bibbia sia la trasposizione esatta degli avvenimenti di quel giorno, mi pare ovvio! Ebbene, sappiate che non è affatto così. Le cose, in quei giorni, andarono piuttosto diversamente da come vi sono sempre state dette.
Come faccio a saperlo? Non starò qui a dilungarmi più di tanto, sappiate solo che io, quel giorno, ero presente sul campo di battaglia. Di seguito vi racconterò nel modo più fedele possibile gli avvenimenti di quel lontano giorno di cui tutti hanno memoria, ma che ormai nessuno conosce sul serio.
Iniziamo col precisare il contesto storico: in quegli anni il Regno di Israele era in guerra col popolo dei filistei. Non chiedetemi i motivi, li potete trovare scritti nelle pagine dedicate al fatto nel libro di Samuele. Vi basti sapere che in quegli anni, più o meno il mille avanti Cristo, il Regno di Israele era costantemente in guerra con qualcuno. Dei tipi simpatici, a ben pensarci, non è vero?
Fatto sta che questi nemici di Israele, i filistei, erano dei tipi davvero tosti da sconfiggere. Non appena i due schieramenti rivali si trovano l'uno di fronte all'altro nei pressi di Soco, il re degli israeliti Saul capisce che la situazione è piuttosto complicata.
“Perfetto: sono tanti, più di noi. Sono forti, più di noi, e là in mezzo, se non vedo male, c'è un tipo alto circa tre metri. Siamo nella cacca.”
Dall'altro lato anche i generali dei filistei si trovavano ad avere più o meno gli stessi pensieri: “Loro sono tanti, non come noi, ma quasi, loro sono forti, e probabilmente molto più cattivi di noi. Se li affrontiamo, magari vinciamo, ma finiamo comunque macellati in gran parte, il che non ci sta bene. Siamo nella cacca.”
Tenendo conto di tutte queste premesse, si può ben capire che la situazione era ad un punto di stallo.
Re Saul ed i suoi non riuscivano a trovare una strategia adatta ad affrontare un esercito tanto forte e, dall'altro lato, nemmeno i filistei sapevano che pesci pigliare.
Cosa si poteva fare? Durante uno dei tanti meeting avvenuti nell'accampamento filisteo, ad uno dei generali venne in mente un'idea geniale:
_Caspita! Perché farci macellare tutti quando possiamo mandare a combattere al posto nostro un solo uomo?
Un altro dei comandanti, che aveva ben poca voglia di combattere, rispose al primo che l'idea non era male, ma il problema era trovare un “idiota invasato disposto a tirarsi addosso l'onere”.
_Non c'è problema _ disse tronfio il primo.
_Ah no? _ disse il secondo _E chi vorresti mandare?
_Golia! Se glielo chiediamo, lui andrà di sicuro, basta promettergli una lauta ricompensa.
_Sei sicuro che accetterà? È una bella responsabilità.
_Certo, è talmente stupido che non ci pensa nemmeno alle conseguenze di una possibile perdita.
_E dovremmo fidarci di un uomo così stupido?
_Sì, picchia come un fabbro.
In men che non si dica, la decisione venne presa: il buon (più o meno) Golia era l'uomo di cui i filistei avevano bisogno.
Il primo generale, armato di tutta la capacità diplomatica che aveva a disposizione, andò immediatamente a cercare il gigante Golia tra le schiere del proprio esercito. Non gli fu difficile trovarlo, nel mezzo di una cerchia nutrita di filistei che giocavano a pallavolo per ammazzare il tempo, il generale vide spiccare il grande Golia: stava reggendo la rete di metà campo. Dal momento che in tutto l'accampamento non si riusciva a trovare un secondo palo adatto alla bisogna, i soldati avevano chiesto al colosso di fare lui stesso il palo, e l'energumeno, sveglio come era, aveva accettato senza fare storie.
_Ragazzi! Mi dispiace disturbarvi, ma ho bisogno del nostro campione.
Gli uomini, tirando qualche bestemmia e anche una vigorosa pallonata in direzione del generale appena arrivato (l'insubordinazione era un rischio da non sottovalutare in quell'esercito), interruppero la partita e stettero a sentire quello che il nuovo venuto aveva da dire. Tutti tranne uno, Golia, che non curante dell'interruzione continuava stoico a reggere la rete.
_Sono qui per parlare con il campione Golia!
Un'esplosione di risate sommerse il povero generale. Gli uomini sapevano che Golia era tutto, meno che un campione, e pensarono che il generale fosse ammattito all'improvviso. Ad ulteriore prova della lentezza del colosso, il buon Golia, mentre con una mano reggeva le rete, con l'altra iniziò sovrappensiero a scavare con l'immenso indice nella voragine che era la sua narice destra.
_Golia! _ Disse con voce tonante il generale _Abbiamo bisogno di te! Ascoltami!
Golia, trasalendo per l'improvvisa chiamata in causa, pensò istintivamente che gli avessero appioppato qualche altro compito ingrato, tipo tenere fermo un bue mentre gli altri giocavano alla cavallina con esso.
_Mi dica, generale.
_Lascia la rete, o uomo possente, e preparati per la battaglia!
Sentendo queste parole, il gruppo di soldati emise un sonoro “Buuuuuuh!” di disapprovazione, che sommerse come un'onda il povero generale. Era comprensibile da parte loro, dopo tanto tempo passato a non far nulla, che non avessero voglia di mettersi a combattere.
_Ok _ rispose il gigante _Appena si preparano anche gli altri, vado pure io.
_No, gli altri no. Solo tu.
Questa volta tra i soldati si levò un sospiro di sollievo, mentre sul volto di Golia si disegnava un'espressione che faceva chiaramente intuire che aveva un cattivo presentimento.
_E perché solo io?
_Perché sei stato scelto da tutti i generali in consiglio come il campione che ci rappresenterà in un duello simbolico contro gli israeliti.
_Io da solo? Ma siete matti?
_No, tu, o uomo possente, scenderai sul campo di battaglia e sfiderai i nemici in un uno contro uno. Tu sarai il nostro campione, e loro ne sceglieranno uno che ti affronterà. Siamo fiduciosi in te.
Golia aveva un'espressione chiaramente perplessa. Si trattava di un uno contro uno, un giochetto da ragazzi, ma era pur sempre del destino della guerra che si stava parlando. Non gli andava troppo a genio.
_Sicuri? No dico, siete proprio sicuri che devo farlo io?
Il coro di soldati, dopo un breve silenzio, capì che la situazione per loro non era per nulla onerosa: a prendersela in quel posto, in caso di sconfitta, sarebbe stato Golia; in caso di vittoria, si sarebbero tolti il problema della guerra. Di conseguenza cominciarono ad incitare il valoroso combattente scandendo come una cantilena il suo nome “Go-Li-A! Go-Li-A!”
Il gigante, non essendosi mai sentito acclamare in tal modo, si fece animo e decise di accettare l'incarico.
_Ok, vado e vinco, ma se per caso perdo?
_Tu non ti preoccupare di quello, fai parlare noi e la questione si risolverà senza problemi, anche se perdi.
Il generale aveva in serbo un piano, nel caso le cose sarebbero andate storte: nella dichiarazione di intenti prima del duello (dichiarazione inviolabile una volta pronunciata) avrebbe detto solo che se Golia avesse sconfitto il rivale, i filistei avrebbero vinto la guerra, senza precisare nient'altro. In tal modo, se invece Golia avesse perso, l'esercito si sarebbe lanciato all'attacco dei rivali impreparati e qualche cosa lo avrebbero comunque ottenuto.
Una volta convinto il campione e vestito di tutto punto, il generale accompagnò il colosso al centro del campo di battaglia deserto.
Nelle fila degli israeliti, re Saul, intento a schiacciare un pisolino, venne svegliato da un servitore e gli venne riferito che un generale filisteo, insieme al gigante dell'accampamento rivale, volevano parlargli.
Saul, in mutande e canottiera, uscì dalla tenda e scrutò il campo (che sarebbe dovuto essere di battaglia, ma che in realtà era del tutto desolato, se non fosse stato per i due tipi al centro). Incuriosito, prese con sé un consigliere e si recò a bordo di un cavallo all'incontro.
Il centro del campo era distante circa mezzo chilometro dagli accampamenti, ma, nonostante la lontananza, dal campo dei filistei si percepiva chiaramente il coro dei soldati che scandiva le seguenti parole: “Di Golia ce n'è uno, come lui non c'è nessuno!”.
Golia, gasato al massimo da tanta fiducia, si dimenticò dell'ordine del generale di non dire una parola e, facendo di fatto l'inviolabile dichiarazione d'intenti che avrebbe preceduto il duello, dichiarò senza mezzi termini, in modo che tutti gli uomini di entrambi gli schieramenti potessero sentire:
_Popolo di Israele, mandatemi un uomo a vostra scelta! Se vinco, il poderoso Golia, avrà conquistato la vittoria per il suo popolo, ma se perdo, e non succederà mai, dichiaro che i filistei diverranno per sempre vostri schiavi!
Il coro dei soldati filistei si interruppe bruscamente e il generale filisteo trattenne a stento un urlo di dolore, mentre re Saul nascose altrettanto a fatica una risatina e disse, prima che il tutto potesse venire ritrattato:
_Accetto!
E si girò, veloce come era arrivato, andandosene al trotto sul suo fido palafreno.
Nell'accampamento, Saul disse con orgoglio di aver un piano: avrebbe lasciato passare quaranta giorni, poi, con uno stratagemma, avrebbe mandato uno dei suoi soldati in battaglia contro il colosso, ed il soldato avrebbe sicuramente vinto.
_Come, mio signore? _Domandò uno degli uomini accorsi a sentire il proclamo.
_Doterò il soldato di frecce avvelenate! Così facendo, anche il minimo graffio risulterà fatale per il gigante!
Udite queste parole, nel campo degli israeliti si levò il medesimo slogan di poco prima, solo con il nome cambiato: “Di re Saul ce n'è uno, come lui non c'è nessuno!”
Come detto, a seguito di questi avvenimenti i quaranta giorni passarono pigri nei due schieramenti. Fiduciosi entrambi di poter vincere, anche se i filistei, a dire il vero, nutrivano qualche dubbio in più rispetto agli israeliti, i soldati si dedicavano ai più svariati passatempi: lo schiaffo del soldato, la cavallina coi buoi, la pallavolo; solo alcuni degli hobby degli uomini.
Solamente Golia, lasciato un po' in disparte da tutti i compagni, ogni mattina si alzava prima del sole e si presentava sul campo di battaglia ripetendo lo stesso annuncio del primo giorno, senza mai ricevere una risposta.
Tranne il quarantesimo mattino.
Prima che il sorgere del sole inondasse la valle tra i due schieramenti contrapposti, un pastorello ignaro degli avvenimenti politici del tempo, portò nel bel mezzo del campo (che sarebbe, ripeto, dovuto essere di battaglia, ma che di fatto era deserto) il suo gregge di pecore a pascolare. Rimasto sveglio per alcune ore nel cuore della notte a controllare l'arrivo di eventuali predatori, il buon pastore, verso l'alba, aveva finito con l'assopirsi, mentre il gregge si era di poco spostato altre le colline che circondavano la valle.
Naturalmente anche il quarantesimo giorno, Golia si levò dal letto prima di chiunque altro e si fiondò nel campo di battaglia urlando come un forsennato.
_Popolo di Israele, mandatemi un uomo a vostra scelta! Se vinco, il poderoso Golia avrà conquistato la vittoria per il suo popolo, ma se perdo, e non succederà mai, dichiaro che i filistei diverranno per sempre vostri schiavi!
_E per la miseria! Quanto baccano di prima mattina!
Il pastore, spaventato per le urla, si alzò di soprassalto e si guardò attorno smarrito.
_Dunque sei tu! _Disse Golia in modo da essere sentito da chiunque negli schieramenti _Sei tu un israelita?
Il pastore, spaesato, diede un'occhiata alle sue spalle e vide il colosso a pochi metri di distanza. Sbiancando per la visione, farfuglio disciplinatamente la risposta:
_Sì, sono di Israele, c'è qualche problema?
_Qual'è il tuo nome? _Urlò con forza Golia.
_Da... Da... Davide.
_Bene Davide, campione israelita, inizia lo scontro per il destino dei nostri popoli.
Tra i due schieramenti quelle parole risuonarono come un'esplosione, e tutti gli uomini uscirono dalle proprie tende per scrutare gli avvenimenti nella valle.
I filistei, vedendo il ragazzino davanti al colosso, scoppiarono in una risata fragorosa e ripresero ad intonare il vecchio coro: “Di Golia ce n'è uno, come lui non c'è nessuno!”. Gli israeliti invece, guardandosi attorno spaesati, andarono a chiamare il loro re, che uscì dalla tenda e divenne pallido come un lenzuolo fresco di bucato.
_E quel nano chi diavolo l'ha mandato?
_Lei signore! No?
_No!
_Siamo nella cacca?
_Sì!
Lo scontro tra Davide e Golia, comunque stessero le cose, era ormai iniziato. Il piccolo pastore scappava gridando come una donnicciola per tutta la valle, inseguito dal colosso che brandiva una spada più lunga del suo rivale. Nascondendosi dietro ad ogni roccia, il giovane cercava di mantenere la calma e pensare ad un modo per poter abbattere il nemico. Ma come? Con solo una fionda!
Pensando il più velocemente possibile ad un piano d'azione, Davide riprese a scappare, andando casualmente in direzione del sole che stava giusto giusto sorgendo. Impreparato alla luce accecante, dopo tanta oscurità, il gigante Golia fece cadere la spada e si portò istintivamente le mani agli occhi: era quello di cui Davide aveva bisogno. Raccogliendo da terra un sasso appuntito e piazzandolo sulla fionda, il giovane attese il momento opportuno per scagliare il suo proiettile e colpire in piena fronte il gigante.
Silenzio negli accampamenti, silenzio sul campo di battaglia. Facendo due passi tremolanti, Golia si mosse in direzione del ragazzo, finendo col cadere some un sacco di patate ai piedi del giovane.
Una voce, vedendo la scena, si levò dal campo degli Israeliti, quella di re Saul:
_Prendi la spada del gigante e tagliagli la testa, altrimenti, giuro che ti spacco le gambe.
Davide non voleva che le sue gracili gambe subissero tale trattamento e constatò come la sfortuna si fosse accanita su di lui in quella bella giornata. Senza riflettere più di tanto, prese l'arma ed eseguì l'ordine ricevuto sotto forma di minaccia.
Quello che successe dopo è noto a tutti, solo gli avvenimenti riguardanti la battaglia furono riportati in maniera a dir poco fantasiosa.

Ora, io ritengo che la realtà sia molto più piacevole rispetto a quanto scritto nei testi sacri, ma a quanto pare per gli storici non è così. Ma voi, che ormai sapete come sono andate davvero le cose, diffidate della versione ufficiale, e quando parlate di Davide e Golia, ricordate sempre quanto le cose sarebbero dovute andare diversamente.

mercoledì 1 aprile 2015

SORELLE DI MALASORTE

di Gianluca Bissolati

Sorgono ricordi
che portano
a donne diverse.
Tante passate
e spero poche future.
Volti, voci, o semplici immagini:
tutto richiama
amaramente
ciò che riuscii a buttare.
Ignoro
se mai vivrò una donna
tanto da amarla.
Finora è solo certo
che le ho vissute a sufficienza
da sentirne la mancanza.